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Dilettante professionista

Davide Ferrario senza peli sulla lingua. Ci parla del suo documentario in uscita nelle sale, ma anche del cinema che non ama - quello politico di Nanni Moretti - e di un progetto segreto con Marco Paolini

Davide Ferrario

12.04.2007 - Autore: Fiorenza Melani
Davide Ferrario senza peli sulla lingua. Ci parla del suo documentario in uscita nelle sale, ma anche del cinema che non ama – quello politico di Nanni Moretti – e di un progetto segreto con Marco Paolini.  Lo incontriamo negli inusuali panni di fotografo. E’ al Museo di Fotografia Contemporanea, a Cinisello Balsamo (Mi), al convegno conclusivo della mostra “Foto da galera”, una raccolta dei suoi scatti più significativi all’interno del carcere di San Vittore. Una mostra fortunata, ora esposta in Triennale a Milano fino al 19 marzo e che poi approderà a Roma e Torino.

Ferrario non solo regista, ma anche scrittore (il suo “Dissolvenza in nero” riceve nel ’94 il premio Hemingway per la narrativa), fotografo, collaboratore di Ronconi in un allestimento teatrale shakespeariano… Si ritrova nella definizione datale di “Umanista del nostro secolo”?
E’ molto bella. Al massimo ero riuscito a definirmi “dilettante professionista”…. Mi piace particolarmente anche perché in questi tempi di scienza e tecnologia l’umanesimo non è molto di moda.

Lei si delinea come regista particolarmente interessato ai temi sociali nella sua produzione documentaristica (n.d.r. “Materiale resistente”nel ’95; “Partigiani” nel ’97), mentre nella finzione cinematografica porta sullo schermo storie meno impegnate…
Non mi sento un regista impegnato. Cerco semplicemente di testimoniare lo spirito del mio tempo. Se è di impegno politico che parla, personalmente sono schierato, nel senso che ho una mia opinione, ma penso che il cinema non debba entrare nella politica.

Uno dei registi italiani più acclamati, Nanni Moretti, ha fatto della politica una bandiera…
Moretti è un caso interessante di fertile equivoco tra politica e spettacolo. Non è un caso che  sia diventato il leader dei girotondi. Nei suoi film è sempre stato un moralista; ora può farlo anche nella società civile perché i leader politici sono in crisi e si è così aperto uno spazio. Come regista ha fatto cose belle e cose brutte. Trovo che non abbia però un linguaggio filmico particolare.

Quali sono i prossimi progetti?
Un documentario nel quale ripercorro la strada fatta da Primo Levi, raccontata ne “La Tregua”. E’ un lungo viaggio attraverso la Polonia, la Biellorussia, la Moldavia, fino ad arrivare in Italia. E’ il film che amo di più tra quelli che ho realizzato e uscirà nei cinema a fine aprile. Parla del passato e del presente dei paesi che attraversa. Usa il messaggio di Levi per descrivere la realtà dell’oggi.
Ci sono poi delle sceneggiature ferme nel mio cassetto. Ma per ora non ho altro in programma. Prima attenderò la distribuzione di “La strada di Levi” e poi penserò ad un nuovo film.

Il suo esordio è segnato da una pellicola abbastanza americana nei tempi e nell’ambientazione “La fine della notte”, successivamente si è orientato verso film più “domestici”…
Non mi faccio domande sui miei film. Ognuno ha la sua storia e la sua regola. In questo senso, preferisco i film ai registi, perché vorrei essere ogni volta sorpreso. Non mi interessa costruire lo “stile Ferrario”, ogni film deve essere nuovo. Con “Tutti giù per terra” sono stato in qualche maniera un rompighiaccio, gli altri registi hanno cominciato a montare in modo diverso. “Dopo Mezzanotte” è stilisticamente un passo indietro perché è un film con pochissimi personaggi, girato quasi interamente in interni, fatto di campi e controcampi, eppure – in quel momento - era un passo avanti. Mentre tutti facevano altro ho fatto una scelta coraggiosa ed è stato un grande successo. Bisogna re-inventarsi ad ogni film.

Quale direzione prenderà il cinema italiano?
Ha già preso una direzione precisa: quella di morire come industria e sopravvivere come artigianato. Ci sono molti registi che fanno bei film nonostante non esista più un sistema produttivo. Questo è in parte colpa della televisione. Ma se hai talento riesci comunque a raccontare una cosa tua. E poi noi italiani siamo particolarmente bravi ad arrangiarci quando non esistono i mezzi…


Con quali attori le piacerebbe lavorare? Uno in particolare: Marco Paolini. Ho avuto modo di girare degli spettacoli suoi e trovo che sia sotto-utilizzato come attore. Sarebbe un cattivo perfetto. Fare teatro impegnato è un limite per lui, perché diventa difficile proporlo al di fuori di ciò che si aspetta il pubblico. Abbiamo in realtà il progetto di un film insieme, nel cassetto, in attesa di trovare un finanziatore, in cui lui sarebbe il protagonista, un cattivo che fa cose che il suo pubblico troverebbe riprovevoli.
In generale, comunque, per me prima viene il film e poi penso agli attori. Sono le storie che dettano la scelta dell’attore e non viceversa.

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