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Un selvaggio ribelle

Fu "Un tram che si chiama desiderio" a portare sul palco la deflagrazione. L'untuoso polacco Kowalski liberò gli attori, ma anche i desideri femminili più inconfessabili. E quando divenne film (dopo l'esordio nel cinema con "Uomini") nel '51, Kowalski liberò definitivamente Brando.

marlon brando

05.07.2004 - Autore: Matteo Nucci
Nato a Ohama, Nebraska, il 3 aprile del 1924, Marlon Brando fu subito segnato. Genitori alcolisti, un padre che considerava l’arte “roba da checche”, una madre che l’arte forse l’avrebbe anche coltivata ma preferiva passare il tempo a bere, lasciando il piccolo di quattro anni a una babysitter diciottenne e questa babysitter che si lasciava esplorare quale estrema fonte di conoscenza e che fu dunque l’inconsapevole ‘iniziatrice’ del precocissimo selvaggio. Selvaggio, del resto, Marlon Brando lo fu subito. Quanto alle scuole, fu espulso sia all’asilo, sia al liceo, sia all’Accademia Militare, per ‘tranquillizzarsi’ solo dove poteva imparare a essere altro, ossia a recitare. Stella Adler lo accolse fra le braccia (e non soltanto in senso metaforico) stabilendo che non si poteva insegnare nulla a quel ribelle e non perché volesse ribellarsi a tutto come lui stesso diceva, ma perché sapeva già tutto (e chissà a cosa veramente alludesse). E nel Dramatic Workshop della New School For Social Research incontrò il grande Erwine Piscator che lo diresse nelle prime formidabili apparizioni teatrali. Plasmato dal Metodo con la M maiuscola, quello del naturalismo espressivo, della completa immedesimazione nel personaggio, il metodo Actor’s Studio, quello del russo Stanislavsky, Brando divenne il ‘punto di volta’. Nessuna definizione dei suoi meriti quale spartiacque sembra migliore di quella offerta dal discepolo, amico, vicino di casa Jack Nicholson: “Marlon Brando ci ha liberati”.   Fu “Un tram che si chiama desiderio” a portare sul palco la deflagrazione. L’untuoso polacco Kowalski liberò gli attori, ma anche i desideri femminili più inconfessabili. E quando divenne film (dopo l’esordio nel cinema con “Uomini”) nel ’51, Kowalski liberò definitivamente Brando. Jeans e maglietta, smorfie, silenzi, gesti e una voce increspata in quello che sarebbe diventato il suo celebre mumbling, l’attore fu l’unico a non essere premiato con l’Oscar ma fu anche il vero trionfatore, l’indimenticabile personaggio. Niente riusciva meglio a quel ribelle pieno di una rabbia quasi primordiale di maltrattare una donna con un sadismo attraente e con la crudeltà di chi non indulge sui sogni altrui. Fu però da quel ruolo che Brando cercò costantemente di liberarsi, confessando implicitamente quanto forse fosse stata quella la prima e più profonda ‘trappola’ di Elia Kazan, suo mentore e scopritore. Un ruolo che si addiceva troppo al seguace del Metodo, un ruolo che gli negava di liberare davvero il talento naturale, l’istrionismo completo. A Brando infatti la parte di uomo amato di un amore perduto, la parte di uomo tanto crudele e spietato quanto fragile e tormentato riuscì benissimo durante l’intero corso dei suoi ottant’anni. Delle infinite amanti impossibile sapere il nome, come invece delle tre mogli (Anna Kashfi, Movita e Tarita Teriipia). Sicuro invece l’esito delle sue storie, fra sei suicidi di ex amanti, odio, rancore di molte altre e cause legali aperte su più fronti. Tanto che solo due anni fa Brando aveva dovuto difendersi con l’ex cameriera e amante Cristina Ruiz madre di tre suoi figli in una causa milionaria, mentre soltanto pochi mesi fa era riuscito a mettere a tacere l’ennesimo contenzioso con tale Caroline Barrett da cui aveva cercato di farsi restituire 180.000 dollari che la donna aveva considerato evidentemente un dono.