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L'Africa nel cuore

Sveva Sagramola è innamorata dell'Africa. Una passione travolgente e dolce, prepotente e unica. Per lavoro viaggia e racconta le storie degli altri, le immagini di grandi documentaristi. L'abbiamo incontrata per chiederle di parlare dei suoi viaggi, della "sua" Africa.

Sveva Sagramola

14.03.2003 - Autore: Federico Geremei
Sveva Sagramola è innamorata dell’Africa. Una passione travolgente e dolce, prepotente e unica. Per lavoro viaggia e racconta le storie degli altri, le immagini di grandi documentaristi. L’abbiamo incontrata per chiederle di parlare dei suoi viaggi, della ”sua” Africa.   Com’è nata la passione per l’Africa? È nata un po’ per caso. Nel ’97 mi fu chiesto di fare delle presentazioni di alcuni documentari, mi dissero “perché non vai, si tratta di impaginare dei documentari che abbiamo da mandare per un programma che andrà in prima serata”. E l’idea è stata dunque quella di andare nei luoghi in cui sono stati girati e raccontarli.   C’eri mai stata? No, non c’ero mai stata. Partii e stetti fuori un mese: Kenya, Tanzania e Sudafrica. Forse lavorare in un posto, invece che visitarlo e basta, fa vivere quell’esperienza in un altro modo. Fu quello il viaggio in cui incontrai l’Africa e la potenza estrema della sua natura.   Molti iniziano così, incontrano prima gli animali e poi la gente d’Africa Sì, infatti. Conobbi molto poco la realtà umana, delle persone e delle città, dei grandi problemi. Dopo quell’impatto tornai completamente stravolta, col mal d’Africa a mille. Non riuscivo a pensare di vivere senza poter tornare in Africa.   Sei tra quelli che pensano che esiste il mal d’Africa? Quando si vive una dimensione così forte, sembrerà una banalità, si ritrovano le origini, è questo il mal d’Africa. Io credo che esista, è un impatto così violento e autentico, che fa male. Poi sono tornata a casa e mi sono detta “bisogna che trovi il modo di tornarci”.   Come pensavi di fare? Per me l’unica possibilità era quella di tornarci per lavorare. Anche per evitare di essere esposta alla falsità dei tour mordi e fuggi. Non volevo soltanto guardare ma provare a vivere in quei luoghi, fare incontri e starci a lungo.   Ma questo non vale solo per l’Africa Certo. Anche qui, a Roma, è lo stesso: se vai in un ristorante a menù turistico mangi uno squallido piatto di pasta a cinquantamila lire, senza scoprire che cosa mangiano i romani.   Poi hai iniziato con ”Geo” Poi ho iniziato a condurre “Geo” e questo m’ha messo in contatto con una serie di registi, produttori, organizzazioni non governative, viaggiatori. In particolare ho conosciuto Tommy Simmons di AMREF e gli ho detto “Senti, io voglio tornare in Africa, ho voglia di viverla e di raccontarla”. Sono tornata in Kenya e ho conosciuto realtà diversissime: dalla bidonville di Nairobi, ai piccoli presidi medici, alla realtà più autentica dei villaggi Masaai.   Cosa metteresti sulla copertina di un libro intitolato “Africa”? Ci metterei sicuramente una immagine del Mali. Un mercato, un ansa del Niger, non so. Quella è forse l’Africa più africana che ho visto.   E il resto del continente? Il nordafrica non lo conosco e mi piacerebbe andarci. Il Sahara libico in particolare e poi il Marocco. Nel Mali ho lasciato il cuore: da Timbouctù ai piccoli villaggi lungo le rive del Niger. Non dimenticherò mai le emozioni del Mali.   Credi di riuscire a trasmetterle queste emozioni? Lavorano con un mezzo visivo si può raccontare attraverso le immagini. Una possibilità che allo stesso tempo è una sfida impossibile   Cioè? È una questione di sensazioni sulla pelle, odori e profumi. La stanchezza non si trasmette con la telecamera, così come la sensazione che si prova incrociando gli sguardi di certe persone che s’incontrano in Africa. Chi non c’è stato forse s’annoia a guardare i documentari, non so.
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