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La grande contraddizione

C'è forse l'autenticità più profonda nell'uomo Marlon Brando, in quell'uomo che distruggeva la sua bellezza per essere amato comunque e magari di più, che cercava di essere attore nonostante ritenesse quella la parte più idiota della vita, che voleva vivere e non poté evitare la tragedia?

marlon brando

05.07.2004 - Autore: Matteo Nucci
Lo stuolo di legali che gli portarono via somme astronomiche soprattutto per difendere il figlio (che riposa a Tetiaroa nella tomba accanto alla sorellastra Cheyenne, di cui aveva ucciso il fidanzato sorpreso sul divano con lei) forse fu nient’altro che la via più naturale per quelle assurde cifre che Brando riuscì a farsi pagare in brevissime apparizioni sull’onda della celebrità. Celebre lo diventò in fretta. Dopo il “Tram” vennero infatti “Viva Zapata”, “Giulio Cesare”, “Il selvaggio” e “Fronte del porto” e con “Fronte del porto” l’Oscar. Era il 1954. In quattr’anni, Marlon Brando era diventato già un mito. Aveva ‘tradito’ il teatro perché – disse – “non ho dimenticato la povertà e non posso rifiutare i guadagni che mi si propongono” e aveva promesso di tornarci in fretta, sul palcoscenico. Così non fu. E i guadagni si moltiplicarono assieme a una vita privata sempre più turbolenta e a interpretazioni in cui Brando sembrava voler distruggere il personaggio che gli era così naturalmente cresciuto addosso.   “Riflessi in un occhio d’oro” del ’67 mostrò forse meglio di qualsiasi altro film la capacità di Brando di mettere in scena un’insopprimibile bisogno di purezza. Fu quel bisogno di purezza a spingerlo a battaglie di ogni genere? Tra la difesa della natura, dei Native Americans, le accuse antisemite, le critiche ai potenti eppoi il clamoroso rifiuto di consegnare a Elia Kazan l’Oscar alla carriera, ci fu sempre un uomo in bilico, una natura costantemente in cerca di se stessa. “Ho finito per passare la vita a cercare di conoscere me stesso. Ma un uomo ha paura quando si trova faccia a faccia con se stesso”. Fu questo il motivo per cui disprezzò fino all’odio un altro personaggio che sarebbe diventato leggenda? L’americano a Parigi con cui Bertolucci lo riportò nel ’72 a una grandezza inaspettata era forse in qualche modo un nuovo Kowalski? Un nuovo se stesso?   Certo è che del ’72 è anche l’inarrivabile interpretazione di don Vito Corleone, il padrino di Coppola che gli portò il secondo Oscar, un uomo per cui Brando invecchiò, infilandosi in bocca con geniale intuito pezzi di ovatta che gli modificassero le mascelle e dimostrando l’immediata comprensione del personaggio in cui sarebbe andato a vivere. Perché Brando viveva i suoi personaggi. E non è casuale la sua ennesima interpretazione memorabile, quella del colonnello Kurtz in “Apocalypse Now” del ’79. Pochi minuti che durano un’eternità, accompagnati da capricci e pretese sul set che fecero impazzire la troupe. Pochi minuti segnati dall’attesa, dall’assenza, da una presenza debordante, una testa calva, le parole strascicate, le mani e le spalle, il resto solo ombra.   Ma quale ombra, quale assenza più potenti di quanto oggi Marlon Brando ha lasciato? Negli ultimi anni, c’è stato sempre lo stesso uomo, infatti. L’uomo che ha pianto sul set di uno spot pubblicitario in cui si emozionava pensando alla sua isola, l’isola della più grande felicità e delle più terribili sofferenze. Il profilo nobile scolpito contro il cielo di un vecchio ormai, un vecchio che mormorava ipotesi sul futuro del pianeta. Il profilo da capo indiano. In controluce l’ombra della sua lealtà. Fu Maria Schneider (lei sì rovinata per sempre da quel ruolo in “Ultimo tango a Parigi”) a ripetere insistentemente che Brando aveva un terribile ‘difetto’: la schiettezza, la perenne autenticità che si esprimeva in una ruvidezza da far tremare le gambe.   C’è forse l’autenticità più profonda nell’uomo Marlon Brando, in quel personaggio che non voleva essere personaggio, che sfuggiva al suo mito creandosene altri, che distruggeva la sua bellezza per essere amato sempre e magari di più, che cercava di essere attore fino in fondo nonostante ritenesse quella la parte più idiota della vita, che cercava di vivere e non poté evitare la tragedia? Dicono i filosofi che c’è sempre malinconia nella grandezza di un uomo e sottolineano delle grandi nature che esse sono tali solo quando rivelino inestricabili e mai risolte contraddizioni. Virtù e vizio sono gli estremi più facili per la grande natura tormentata e malinconica che non si abbandona alla mediocrità. È morto Marlon Brando. Salutiamo Marlon Brando.