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Fegato, chianti e talento: Anthony Hopkins

L'avventurosa carriera di un grande attore

Anthony Hopkins

14.02.2011 - Autore: Alessandro De Simone
Nel 2003 Anthony Hopkins era ospite della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per accompagnare il film “La macchia umana” e chi scrive si trovava nella tribuna riservata agli operatori televisivi, armato di telecamera, durante il red carpet del premio Oscar per “Il silenzio degli innocenti”. Dopo alcuni minuti di assoluto disinteresse nei confronti di fotografi, operatori e cerimoniale, ho notato una luce accendersi negli occhi di Sir Hopkins, che dopo pochi istanti si è messo a correre verso il bordo della passerella per accogliere una solitaria standing ovation dal suo pubblico.

Questo episodio spiega meglio di mille parole cosa vuol dire essere un attore di razza come Anthony Hopkins, vero animale da palcoscenico che ha bisogno di sentire l’audience che lo sostiene e lo ammira e capace di restituire quel calore moltiplicato per cento sotto forma di performance.

Anthony Hopkins nel 1984

Classe 1937, gallese, l’attore conosce la notorietà quasi subito, quando gli viene offerto nel 1968 il ruolo da co-protagonista, al fianco di Peter O’Toole e Katharine Hepburn, ne “Il leone d’inverno”, per cui viene nominato per la prima volta ai BAFTA. Una precoce fama che gli permetterà di avere negli anni successivi numerosi ruoli importanti, conquistando l’ambito riconoscimento del cinema britannico nel 1973 come Miglior Attore nella riduzione televisiva di “Guerra e pace”. Un periodo che coincide però anche con la fase più drammatica della sua vita. Hopkins combatte infatti con l’alcoolismo, una dipendenza che dopo grande fatica riesce a vincere nel 1975, un anno che segna una svolta nella sua vita e nella sua carriera. È da questo punto in poi, infatti, che l’attore, vero e proprio drogato di lavoro, decide di scegliere con maggiore attenzione i suoi ruoli. Richard Attenborough lo vuole in “Quell’ultimo ponte” e poi in “Magic!”, Robert Wise lo sceglie come protagonista nell’horror “Audrey Rose” e soprattutto, nel 1980 David Lynch gli cuce addosso la parte del dottor Frederic Treves nello straordinario “The Elephant Man”.

Anthony Hopkins

Stranamente dopo un film di tale portata, Hopkins decide di lasciare il grande schermo per quattro anni, durante i quali si dedica solo a teatro e televisione, ed è memorabile il suo Adolf Hitler nel film tv “The Bunker”, per cui vince anche un Emmy Award. Sarà il primo di una galleria di villain, veri o di fantasia, che caratterizzeranno parte della sua carriera, dal capitano Bligh di “Il Bounty” all’immortale Hannibal Lecter, lo psicanalista serial killer e cannibale che gli ha regalato il suo unico Oscar, oltre a ben tre film di grande successo.
Ma non sarebbe corretto ridurre la vita artistica di questo grande attore a dei cliché. Hopkins ha infatti tratteggiato nel corso degli anni molti personaggi magnifici, oltre quelli che gli anno dato la notorietà, e non solo i perfetti inglesi delle opere di James Ivory, da “Casa Howard” a “Quel che resta del giorno”, ma anche il libraio Frank Doel di “84 Charing Cross Road” e il padre di famiglia sequestrato nel remake di “Ore disperate” di Michael Cimino.

Anthony Hopkins e Jodie Foster agli Oscar nel 1992

Dopo l’Oscar, comunque, Sir Anthony ha anche pensato bene a capitalizzare la sua carriera, lavorando da una parte con grandi autori come Steven Spielberg e Francis Coppola, e scegliendo dall’altra copioni per potenziali blockbuster che, a onor del vero, raramente si sono rivelati tali. Ciò non toglie che negli anni Duemila Hopkins abbia regalato almeno due grandi interpretazioni in piccoli film. La prima in “Indian”, nei panni di Burt Munro, attempato australiano capace di battere il record di velocità su due ruote con la sua vecchia motocicletta; e poi in “Bobby”, nel ruolo del vecchio fattorino d’albergo che nel suo ultimo giorno di lavoro racconta l’America nell’attesa di poter stringere la mano a Robert Kennedy.

Anthony Hopkins ne Il rito

Arrivato all’età di settantatre anni, dopo avere provato anche la regia in tre occasioni, francamente non memorabili, Anthony Hopkins si è finalmente tolto la soddisfazione di lavorare con Woody Allen e di girare un paio di horror, “The Wolfman”, in cui si trasforma in malvagio uomo lupo, e “Il rito”, in cui interpreta un ruolo che molto ricorda quello di Max Von Sydow ne “L’esorcista”.
Ma queste sono comunque ancora solo tappe, dato che tra solo un paio di mesi vestirà i panni di Odino, padre di Thor, e poi quelli, ancor più consoni, di Ernest Hemingway, continuando così la sua personalissima galleria di grandi ruoli biografici.

Buon lavoro, Sir Hopkins, il suo pubblico l’aspetta. 

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