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Banat, parla il regista: “Non chiamateci bamboccioni; per lasciare l'Italia ci vuole coraggio

Partire, restare, vivere l'amore: il cast del film racconta la generazione con la valigia

Banat film

Banat film

06.04.2016 - Autore: Alessia Laudati (Nexta) - da Bari
Adriano Valerio, Elena Radonicich e Edoardo Gabbriellini sono rispettivamente il regista esordiente al lungometraggio, la protagonista e il protagonista di Banat – Il viaggio. Una pellicola piccola e grande al tempo stesso dal tono intimo ma anche volutamente generazionale che uscirà il prossimo 7 aprile nei cinema e distribuita da Movimento Film. Al Bif&st di Bari l’opera è in concorso nella sezione “ItaliaFilmFest/Opere prime e seconde” e in occasione della presentazione pugliese abbiamo scambiato due chiacchiere con il cast del film. 

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Valerio, per girare il film avete passato alcune settimane nella regione del Banat; quanto questo luogo e la sua storia hanno modificato il progetto iniziale rispetto al film?
 
Adriano Valerio: Ad essere onesto la cosa che ha cambiato il processo di scrittura è stato il fatto che sono passati cinque anni da quando abbiamo cominciato a pensare al film e fatto il sopralluogo nel Banat e quando lo abbiamo effettivamente realizzato. In questo tempo sono cambiato io, girando altre cose, ed è cambiata la Romania. Però sia i luoghi sia i personaggi erano già tutti là
 
É cambiata di conseguenza l’impostazione tecnica?
 
Alcune scelte, come i volti dei contadini, sono venute direttamente sul set. Avevo un piano di lavorazione di cinque settimane e l’idea del direttore di fotografia era di tenere aperto il casting agli attori del luogo. E abbiamo integrato le comparse più di quanto previsto in fase sceneggiatura
 
Il rapporto tra i due attori è soprattutto condotto attraverso un lavoro di sottrazione a livello recitativo...
 
Edoardo Gabbriellini: Lavorare in levare significava prendere degli attori bravi (scherza ndr)
 
A.V.: Nel cinema che mi piace c’è spesso questo lavoro di sottrazione. Non so se ci sono riuscito in questo mio primo film, ma è una caratteristica che amo. Sì ho il terrore della retorica e in generale sia in scrittura, sia con gli attori cerco di portarlo a termine. Spesso sono stato maledetto da questo continuo togliere
 
E.G.: Sì l’atmosfera era tipo: ‘Due si incontrano e si salutano';no, era già troppo per lui, mica siamo in un film di Muccino
 
A.V.: Sì abbiamo levato anche molto in fase di montaggio. Se poi avessimo potuto chiamarlo in maniera diversa avrei scelto un titolo come La giusta distanza perché i due personaggi cercano la giusta distanza sia dal luogo nel quale sono nati, sia tra di loro. E poi è stato un criterio usato anche in fase di lavorazione, perché lo scopo era di cercare un equilibrio molto vicino tra i loro corpi e grandi paesaggi. Nel film dovevamo raccontare il senso di spaesamento e il calore amoroso di un momento di incontro tra ddue persone; e questo si vede anche nella scena della canzone di Rosana Fratello
 
Come mai avete scelto proprio un brano di un’icona anni ’80 come la Fratello. Voglio dire è un elemento che ritorna ultimamente nel cinema italiano, anche in Jeeg Robot c’è un brano di Anna Oxa... Come mai questa nostalgia per il retrò?
 
E.G.: É la nostalgia per i quarant’anni. É la prima boa
 
A.V.: No in realtà la scelta nasce da una mia fascinazione per un certo tipo di musica, e questo può accadere anche per altri registi. Io frequentavo molto il Plastic di Milano, una famosa discoteca dove per un’ora mettevano canzoni di Nada e altre artiste simili. Poi, vivendo in Francia imponevo questo tipo di musica ai miei amici. Un’altra alternativa alla quale avevamo pensato era la canzone di Loretta Goggi ‘L’aria del sabato sera’. In questa scelta in particolare c’era poi l’ironia di connettere le radici di questa musica con dei personaggi che sono molto lontani; dando quel senso di surrealtà molto forte. Poi è successo che eravamo a una cena di produzione e abbiamo messo il telefono in un bicchiere per amplificare e a turno mettevamo vari pezzi e poi è uscito questo brano che è piaciuto invece a tutti
 
Come nasce l’idea del film?
 
A.V.: La storia che mi ha dato spunto è quella di un amico che è partito per la Romania per fare un business di mele. Cosa che molti italiani hanno fatto dopo il 1989, l’anno della fine della dittatura. Io sono affascinato dal tema dello spaesamento come regista. E in questo film c’era anche un elemento politico. La nostra storia non è così drammatica ma per me è importante trovare l’equilibrio tra humor e tragedia
 
Lei cita il regista Aki Kaurismäki come riferimento nella cartella stampa?
 
A.V.: Sì lo cito perché in lui convivono tante elementi. Come altro punto di riferimento è Roy Andersson. Non abbiamo fatto un tipo di film così ma rivendico il fatto che si possano sposare i due aspetti
 
E.G.: Nei film di Aki Kaurismäk ic’è però un’ironia assoluta. Una parte dei suoi film sono impregnati di umorismo. Fa ridere 
 
Hai parlato del viaggio come possibilità di cambiare il proprio futuro. Ma hai mandato i tuoi personaggi in una terra politicamente scissa come il Banat  dove, di fatto, ci sono poche opportunità. Come mai?
 
A.V.: L’unica volta che mi sono innervosito è quando hanno definito questo film come grigio. Questo film racconta anche di due personaggi molto coraggiosi invece. Un uomo di quarant’anni suonati che mette la sua vita in vecchia una macchina e attraversa i Balcani per cercare il proprio futuro. Si parla di questa generazione come di bamboccioni e di mammoni e questa storia invece rappresenta il contrario. Ivo (Edoardo Gabbriellini ndr) ha il coraggio di fare questa scelta da grande; non è un venticinquenne che va in Erasmus. E poi c’è la storia di una donna incinta che segue questo uomo che conosce appena. Quindi da una parte si mette in evidenza una forma di disperazione, magari non gridata però se decide di andare in Romania a fare l’agronomo forse qui non stava poi tanto bene. É un viaggio di persone che passano da un contesto urbano ad un contesto rurale dove anche a causa del comunismo ci sono delle zone che sono state comprate da grosse multinazionali e altre abbandonate. Pensate che dopo la fine del comunismo tutti volevano un trattore, prima ce ne era uno per tutti. Questo cambiamento è importante
 
E il titolo Banat?
 
A.V.: É una parola con tre livelli di significato. Oltre al nome della regione di per sé, significa donne in arabo, dolore in ungherese. Assume traduzioni diverse a seconda di come la guardi
 
Cosa vi ha colpito di questi personaggi?
 
E.G.: A me ha colpito Adriano. Io lavoro con l’istinto. E o mi fido o non mi fido. Fare l’attore significa anche che non capisci il tipo di progetto dall’inizio. Allora ti butti e speri che il regista abbia la rete. Al telefono ho capito che la sua storia e i suoi personaggi facevano per me. Mi piaceva come lui parlava di questa sua idea di spaesamento e come incontro di due solitudini. Da lì ho sentito che avevo voglia di fare questo film. Poi non avendo una vera e propria tecnica di attore ho cercate nel mio carattere le altre sfumature 
 
Elena Radonicich: Anche per me la cosa è cominciata con un incontro epico con Adriano a Stazione Termini. Ci siamo conosciuti e riconosciuti come personaggi e parlando una lingua comune rispetto ai sentimenti che in questo film vengono toccati. Perché io funziono così su queste cose. Io sentivo molto affine a me il discorso dello sradicamento e del riconoscersi non nel dove si viene ma delle persone che si incontrano successivamente

Poi spostarsi geograficamente equivale e cambiare punti di vista e ad aprire la mente. E questo è successo sia nella sceneggiatura sia nella realtà; anch’io ho attinto solamente al mio istinto. Non mi sono mossa sicuramente in direzione della tecnica e Adriano mi ha fatto fare un lavoro di sottrazione e senza tentare di capire per forza dove si andava a parare. In questo film c’è volutamente una volontà di lasciare le cose aperte. E quindi è stato un grande atto di fiducia