Suburbicon

Suburbicon

Suburbicon è una tranquilla comunità fatta di casette a schiera e giardini ben curati. Il posto perfetto per le famiglie. Il film è ambientato nel 1959, dove seguiamo la famiglia Lodge la cui vita apparentemente tranquilla nasconde una realtà disturbante. Gardner Lodge (Matt Damon) è un padre costretto a farsi strada attraverso l'oscurità di quella comunità, tra tradimenti, inganni e violenza. Il racconto di persone con tanti difetti alle prese con decisioni veramente sbagliate.

VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
Suburbicon
GENERE
NAZIONE
Stati Uniti
REGIA
CAST
DISTRIBUZIONE
01 distribuzione
DURATA
105 min.
USCITA CINEMA
06/12/2017
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2017
di Marco Triolo
 
Si vede che dietro il nuovo film di George Clooney c'è la mano dei Coen. Si vede molto. Suburbicon è la loro classica commedia nera con tinte thriller che, in mano al regista di Le idi di marzo e Goodnight and Good Luck incamera anche riferimenti all'attualità e riflessioni sul razzismo dell'America.
 
È difficile parlare del film senza spoilerarne almeno in parte la trama. Diciamo così: Suburbicon è ambientato nell'omonima, immaginaria comunità “all-white” in cui improvvisamente irrompe una famiglia di afro-americani, scatenando le ire dei residenti. Ma quello che sembra essere il focus del film è in realtà solo una sorta di contraltare alla vicenda principale: quella di una delle famiglie locali – composta da Matt Damon, Julianne Moore e il piccolo ma già bravissimo Noah Jupe – che finisce invischiata in losche trame e ne pagherà le conseguenze.
 
Da un lato c'è un thriller hitchcockiano – con Alexander Desplat che omaggia apertamente Bernard Herrmann nelle orchestrazioni – che si dipana in maniera abbastanza cristallina e con poche sorprese. Dall'altra però c'è l'evidente bravura dei Coen nel girare intorno ai cliché del filone, tramite personaggi scritti alla perfezione (i due killer spietati ma un po' stupidi escono dritti dritti dal loro repertorio) e svolte imprevedibili nella prevedibilità del comparto giallo.
 
Ma come in un enorme gioco di specchi meta-cinematografico, mentre siamo distratti dallo svolgersi della trama principale, Clooney e i Coen ci fanno passare davanti il loro commento, un tanto al chilo ma non per questo meno attuale, sul razzismo americano. Gli anni '50 sono da sempre rappresentati a Hollywood come un'età innocente prima dell'avvento dei Sixties e delle loro rivoluzioni culturali e sessuali. Non è così nella realtà, e vedere la “brava gente” di Suburbicon manifestare davanti e infine assaltare la casa dei “negroes” che hanno osato turbare la loro pace è un'immagine forte. Il gioco di specchi sta nel fatto che, come noi siamo distratti dal giallo e non vediamo il vero intento degli autori, così gli abitanti di Suburbicon, e dell'America, sono distratti dal loro odio e non notano la violenza che sta avvenendo a pochi isolati da loro e sotto il loro naso.
 
Il finale apre, contro ogni aspettativa, a un filo di speranza. E ci dice che, nonostante ci sia ancora molta strada da fare e molte barriere da abbattere (o non far costruire), forse non tutto è perduto e un futuro in armonia tra persone di tutte le razze è possibile.
 
Clooney dirige tutto con mano ferma, riprendendo scenografie finemente cesellate ed esterni che evocano alla perfezione l'atmosfera controllata di suburbia, destinata a essere turbata non da agenti esterni, ma dai loro stessi abitanti. Gli manca come sempre quel guizzo in più, e di certo l'assenza dei Coen dietro la macchina da presa si avverte. Con loro, Suburbicon avrebbe forse graffiato di più. Con Clooney resta “solo” cinema popolare di lusso.