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Il Codice Da Vinci

Il nostro inviato a Cannes ha visto in anteprima mondiale il film più atteso dell'anno. La pellicola dotata di una sapiente messa in scena e visivamente efficace non convince del tutto a livello drammaturgico

Codice da Vinci

19.05.2009 - Autore: Adriano Ercolani
Tolti tutto il clamore, le polemiche e le aspettative suscitate da “Il Codice Da Vinci”, cosa ne sarebbe rimasto? E’ possibile si tratti di un’opera la cui fama supera di molto l’effettiva importanza del risultato artistico? D’altronde sappiamo benissimo che la “macchina da guerra” hollywoodiana è da sempre maestra nel creare casi cinematografici anche intorno a pellicole di ben poco valore, se non ovviamente quello commerciale.

Sgombriamo immediatamente il campo da tali dubbi. Pur trattandosi di un prodotto destinato al consumo globale, il film possiede una fortissima carica di presa emotiva sullo spettatore, pur essendo basato su una sceneggiatura con moltissime falle; merito della –parziale- riuscita dell’operazione è senz’altro da attribuire all’accuratezza della realizzazione, segno distintivo di qualsiasi prodotto ad alto budget realizzato ad Hollywood. Ma questo “Il codice Da Vinci” ha anche qualcosa in più a livello visivo; al timone dell’operazione è stato infatti chiamato uno degli “artigiani” più competenti dell’odierno cinema americano, quel Ron Howard che in mezzo a tanti prodotti di buona qualità ha anche saputo inserire opere più personali ed ambiguamente intriganti come “Ransom – il riscatto” (Ransom, 1996) e l’ultimo “Cinderella Man” (id., 2005).

Sapiente “metteur en scene” ed ottimo direttore d’attori, il regista ha confezionato una pellicola visivamente molto efficace, grazie anche alle musiche splendide di Hans Zimmer ad alla fotografia del nostro Salvatore Totino. L’enorme problema del film sta, come anticipato, nello script di Akiva Goldsman, che ha sistemato per quanto possibile un romanzo che già aveva in sé una struttura narrativa piena di vistose pecche. Sia il testo letterario che la sua trasposizione cinematografica necessitano infatti di alcuni momenti in cui l’azione si ferma per lasciare spazio alla spiegazione degli eventi; dal punto di vista strettamente drammatico questo procedimento nuoce alla coesione interna del film, spazzandolo in vari tronconi tra loro non molto omogenei. 

Altro problema è quello del personaggio principale, Robert Langdon, che essendo un “catalizzatore” narrativo subisce gli eventi della trama senza essere presenza attiva all’interno della storia: in questo modo sia lui che la Neveau (una monocorde Audrey Tautou) risultano molto meno interessanti dei personaggi secondari, come lo splendido Silas di Paul Bettany – il migliore in campo – o il Leigh Teabing di Ian McKellen.

Molto intrigato a livello drammaturgico, “Il Codice Da Vinci” si riscatta parzialmente grazie alla messa in scena ed alla sapienza registica di Howard, che azzecca una serie di scene, come ad esempio l’ultima,  che sprigionano grande cinema. Tutto sommato un prodotto d’intrattenimento accurato nella realizzazione, ma che alla base aveva l’improbo compito di adattare in maniera quanto meno attendibile il testo troppo intricato di Dan Brown: sotto questo punto di vista, l’operazione non sembra soddisfare le attese.
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