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Paolo Genovese dai corti al prossimo film: faccia a faccia con uno dei registi del momento [intervista]

Il regista di Perfetti sconosciuti e The Place si racconta a Film.it

14.12.2017 - Autore: Pierpaolo Festa (Nexta)
"Un film di Paolo Genovese"- questa è una frase che abbiamo imparato a riconoscere nel corso degli ultimi due anni. Da quando abbiamo visto Perfetti sconosciuti e successivamente con The Place, attualmente nelle sale. Eppure sono sedici anni che Genovese gira per il cinema. Un totale di undici lungometraggi: da Incantesimo napoletano (diretto insieme a Luca Miniero) ai Babbi Natale di Aldo, Giovanni e Giacomo, dai due capitoli di Immaturi a Sei mai stata sulla luna, passando per Tutta colpa di Freud.

Leggi la recensione di Perfetti sconosciuti

Film.it lo incontra al Torino Short Film Market, evento organizzato nei giorni del Torino Film Festival. dove Genovese arriva per parlare di un aspetto importante del mondo del cortometraggio: quelle volte in cui i film brevi vengono trasformati in lungometraggi. Anche lui ha iniziato la sua carriera con i corti e ha debuttato nei lungometraggi adattando il suo film breve Incantesimo napoletano. "Sono appena tornato dalla Spagna dove ho visto il remake di Perfetti sconosciuti diretto da Alex de la Iglesia".

Sei sopravvissuto alla visione del rifacimento di un tuo film?
E' come mandare un figlio fuori sei mesi e vederlo tornare a casa biondo. L'anima è quella, ma ci sono delle differenze.


Vorrei cominciare con una cosa che risalta agli occhi quando leggo la tua biografia: sei laureato in economia e commercio. Come sei arrivato al cinema?
La domanda è diversa: dovresti chiedermi come sono finito a studiare economia. Non vengo da una lunga stirpe di registi di cinema, la mia è una normalissima famiglia medio-borghese. Avevo diciotto anni e sognavo di fare il regista. Ma dovevo anche rimanere con i piedi per terra. Dovevo mantenermi. Per questo ho fatto il pubblicitario: mi piaceva la comunicazione e dunque ho studiato economia. Non potevo permettermi di non lavorare. Ho iniziato in un'agenzia pubblicitaria e poi contemporaneamente facevo cortometraggi. Ne ho girati diversi, ho iniziato a vincere premi e sono stato notato da un produttore che mi ha offerto il primo lungometraggio. Poi il secondo. E poi ho potuto mollare il mio lavoro da pubblicitario e dedicarmi al cinema. 

Sognare di fare cinema. Penso a J.J. Abrams che da ragazzino girava cortometraggi sotto casa...
E' stato così anche per me. Il primo regalo che mi sono fatto fare, quando ancora non esistevano gli smartphone, è stata una telecamera. Usavo dei super VHS della Panasonic. Una roba enorme. A scuola ero quello che faceva i filmini. anche quelli delle vacanze. Avevo quattordici anni e coinvolgevo i compagni, il bidello, i professori. Il sabato sera costringevo tutti i miei amici a partecipare ai miei cortometraggi. Scrivevo delle storielle e mettevo tutto su nastro. Ho ancora centinaia di ore di quei ricordi, tutto archiviato. Roba un po' inguardabile oggi! (Sorride)
 
Perché eri ossessionato dal girare quei corti? 
La cosa che mi affascinava più di tutte era che lo stesso identico filmino lo montavo con musiche diverse e suoni diversi. E vedevo come il materiale potesse diventare romantico, malinconico o triste a seconda del montaggio. Questo mi affascina molto ancora adesso. 

 
Adesso incontri i giovani aspiranti filmmaker. Cosa dici loro?
Dico che hanno un privilegio: possono mostrare le loro idee a chiunque. Hanno la rete e mezzi più accessibili. Quindici anni fa dovevi convincere qualcuno a tirare fuori dei soldi per fare un corto. E non sapevi nemmeno a chi farlo vedere! Dovevi essere invitato a qualche festival e avere la fortuna che la sala fosse piena di spettatori. Per quelli della mia generazione è impensabile oggi notare che basterebbe prendere il telefono alla mattina, filmare una storia, montarla immediatamente. E il giorno dopo farla vedere a chiunque in rete. E' una vera libertà. Quindi il consiglio è trovare una storia da girare. Questa è la cosa più importante. Il "come girarla" è una cosa secondaria: il metodo si impara. Impariamo tutto.

Riesci invece a guardare di nuovo i tuoi corti? Quelli professionali, non quelli girati a scuola. Ti capita di rivederli? 
Si li rivedo. Mi fanno tenerezza. Ho iniziato per gioco insieme a Luca Miniero: eravamo amici e volevamo condividere qualcosa di artistico che fosse più della pubblicità. Passavamo i pomeriggi in agenzia dove non riuscivamo a credere di avere a disposizione macchinari per girare un film. Fare cortometraggi rappresentava un po' la nostra rivincita sui trenta secondi imposti dalla pubblicità. Eravamo lì, ci scambiavamo dei soggetti. E lo facevamo per gioco.

E poi è arrivato Incantesimo napoletano, il corto che successivamente è diventato il primo lungometraggio...
Anche lì, eravamo Luca e io. Di solito quello del regista è un ruolo molto solitario. E invece abbiamo iniziato insieme. Mi manca quella libertà che avevamo all'epoca. Oggi c'è molta più ansia, più aspettative. Ci sono mille occhi puntati. Una volta era veramente divertente. 


 
Paolo chiedo sempre qual era il poster che avevi in camera da ragazzino...
The Blues Brothers. 

Dunque chi sono i tuoi miti?
Sono passato per varie fasi, anche molto diverse. The Blues Brothers, per esempio, lo avrò visto dieci volte di seguito. Mi ha folgorato. E poi c'è Kieslowsky con Film Blu. Ovviamente cito anche Un borghese piccolo piccolo. Sono questi i film che mi hanno segnato. Quelli che mi hanno emozionato. Crescendo l'interesse è andato sulla commedia all'italiana, un genere unico al mondo. Dovrebbe essere coperto da copyright. Pensaci: raccontare con il riso il dramma. Gli americani definiscono questi film "Dramedy" e la vedono come una commistione assurda. Quei film raccontavano profondamente la società e lo facevano in maniera pop. La raccontavano al popolo. Io penso che il cinema debba essere pop: fruire i concetti, anche quelli più complessi, in maniera trasversale. Questo vuol dire fare cinema popolare. 
 
Vale anche per il tuo cinema...
Trovo che oggi il pubblico te lo devi meritare. Bisogna rischiare e io ci ho provato con The Place, portando un film più di nicchia a un pubblico largo. Penso che questo lavoro si faccia per il pubblico. E non vuol dire essere condizionati, ma immaginare un interlocutore. E spiazzarlo anche. Ho fatto The Place per non rimanere ingabbiato: tutti si aspettavano un nuovo Perfetti sconosciuti e per me invece è stato come rivolgermi al pubblico e dire loro 'fidatevi, vi faccio una cosa diversa. Però fidatevi".


 
Quanto tieni a mente un'audience estera quando giri un film? 
Il vero film internazionale supera i confini del tuo Paese e parla a tutto il mondo. E' lì che fai bingo: a me è capitato con Perfetti sconosciuti. Dunque sì, quello che mi interessa è rendere internazionale un progetto italiano.

Eppure il tuo prossimo film sarà un progetto internazionale girato negli USA...
Sì, è un caso. Farò questo film in lingua inglese con attori anglofoni. L'idea mi è venuta due anni fa: ho finito di scrivere questa storia e ho capito che in Italia non si poteva fare. E' una storia che può succedere solo a New York, con un pizzico di surreale, di fantastico. Una co-produzione di vari paesi.