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L'icona Isabella Ferrari: “Mai corteggiata dai registi”

Intervista esclusiva: la star e la sua lotta per cambiare pelle

05.05.2014 - Autore: Pierpaolo Festa
Più si analizzano i suoi ruoli e le sue scelte artistiche più si ha la conferma che seduta davanti a noi c'è un'icona silenziosa del nostro cinema. Ci sono tutte le qualità di una “Star” in Isabella Ferrari: il talento, la bellezza, la classe, la fama e la voglia di mettersi in gioco evitando di rimanere in zone di successo sicure e allo stesso tempo riuscendo più volte a rilanciare la sua carriera. Film.it la incontra nella hall di un grand hotel di Bari dove l'attrice è stata invitata dal Bif&st per presentare Il venditore di medicine, pellicola arrivata da un paio di giorni nelle nostre sale in cui interpreta un personaggio “antipatico, fastidioso e difficile”.


Isabella Ferrari a Cannes nel 2013 con La grande bellezza

Trent'anni di carriera in cui viene da chiedersi quanto sia stata corteggiata dai registi che volevano averla nei loro film: “Poco – ci racconta l'attrice -  Direi che sono stata io a corteggiare in alcune situazioni. C'era questo film di Ferzan Ozpetek, Un giorno perfetto, che volevo tanto fare: mi ero assolutamente lanciata in un inseguimento con il regista fatto di Sms. Che io ricordi non è mai successo il contrario”.

Forse i registi hanno paura di lei? Succede anche a Hollywood con uno come Edward Norton che ama contribuire allo sviluppo del suo personaggio, anche a costo di creare tensione sul set...
Non credo di essere come lui, perché ho troppo rispetto per il regista in quanto artista e voglio inserirmi nel suo progetto come lui lo ha immaginato. Non impongo nulla, nemmeno un cambio del fiato in una battuta. È molto bello lavorare con registi che hanno un'idea precisa. Non mi hanno mai corteggiata, ma alcuni mi hanno voluta tanto. Credo sia stato il caso di Sorrentino che mi ha chiamata per quel piccolo ruolo ne La grande bellezza, perché probabilmente sapeva esattamente quello che voleva e conosceva la mia tipologia. Ecco, credo molto nel fatto di essere il primo pensiero per un regista. Non è sempre così: Ozpetek, ad esempio, era molto indeciso. Devo dire che le situazioni migliori di connubio artistico partono sempre da un istinto dell'autore.

È incredibile notare il forte ribaltamento di carriera che lei stessa si è imposta poco dopo il successo ottenuto con Sapore di mare. Tutto sarebbe stato più facile, lei invece ha scelto la strada più difficile rivoluzionando la sua immagine...
Da noi funziona come in America: quando hai successo con un personaggio è normale che ti propongano sempre lo stesso ruolo. Ho lottato con le unghie e con i denti per spostarmi da quel disegno di carriera. Sapore di mare è uno dei miei film cult, ma ho voluto dirigermi nella direzione opposta. Questa è la forza dell'artista: probabilmente sarei ancora sul treno della commedia se non mi fossi sganciata venti anni fa. Per la mia tipologia il ruolo drammatico diventa più semplice.


Con Ozpetek a Venezia nel 2008

Ha usato due volte la parola “tipologia”, mi spieghi meglio cosa intende...
Forse una malinconia che è impressa nello sguardo.

Poco fa ha detto che le migliori esperienze artistiche partono da un istinto dell'autore. In altre parole sentirsi voluta da un regista è una cosa che aiuta il suo lavoro. Torniamo un attimo indietro di vent'anni: prendiamo Willy Signori e vengo da lontano, il film che ha fatto con Francesco Nuti. Quanto ha rappresentato una svolta?
All'epoca fare un film con Nuti era un punto di arrivo. La sua era una commedia in cui tutte le attrici italiane avrebbero voluto inserirsi. Io ero molto affascinata da quel film e pensavo che fosse un ruolo adatto a me. Mi sono sentita molto voluta: quando mi sento così ho la sensazione di poter lavorare bene. Oggi dopo vent'anni uso ancora la frase che Nuti diceva sempre una volta arrivato sul set: “Che sia un buongiorno!”.

A proposito di punto di arrivo: la sua amica Valeria Golino ha raccontato a Film.it di una certa arroganza congenita provata nel periodo in cui girava Rain Man quando a soli ventidue anni era già voluta da Hollywood. Le è mai successo, considerato che anche lei è stata lanciata poco più che ventenne?
Lo dico con estrema sincerità perché ormai ho cinquanta anni e posso essere solo che sincera: non sono mai stata arrogante. Convivo da sempre con una sorta di umiltà che mi è stata data da mio padre. Sono figlia di contadini e a ogni passo che faccio sento la grande fortuna che mi è arrivata. Oggi riesco a vedermi un po' di più e a capire quando sono amata dal pubblico. Allo stesso tempo non mi dispero per un insuccesso.


A Roma al Festival del cinema francese (Aprile 2014)

Dopo trent'anni di carriera ci sono alcuni spettatori che la hanno amata sin dall'inizio, altri magari lo hanno fatto da quando ha cambiato registro, altri ancora si innamorano di lei dopo un determinato film. Qual è la fascia di pubblico che si è affezionata di più a Isabella Ferrari?
Oggi sono lontana dalle scene più gettonate, ma ogni tanto mi arriva un successo una tantum capace di coinvolgere diverse generazioni di spettatori. È stato così per Distretto di polizia o Sapore di mare. Negli ultimi anni ho fatto molto teatro e negli spettacoli politici – grazie al lavoro con Travaglio – sono riuscita a sintonizzarmi anche con un pubblico più giovane.  

Quando ha lasciato "Distretto" dopo sole due stagioni quella mossa mi ha ricordato la stessa scelta con cui si è allontanata dal successo garantito delle commedie...
Era una serie televisiva ingombrante, troppo grande. Il successo di Distretto poteva andare avanti all'infinito e non volevo diventare il “Montalbano donna”, piuttosto mi interessava spaziare e non essere riconoscibile. Oggi vorrei tornare in TV: sono alla ricerca di un personaggio che possa essere empatico. Un ruolo serializzato può rappresentare un ottimo lavoro per un attore. All'epoca di Distretto lo avevo vissuto come un esperimento da laboratorio, un distacco troppo violento dal cinema d'autore. Oggi invece è una strada che percorrono tutti e nella quale vorrei tornare anche io, anche perché fare cinema d'autore è più che mai difficile.

Cinema d'autore, dunque al servizio di registi già affermati che riescono a fare i “loro” film. Eppure in questi giorni la vediamo ne Il venditore di medicine al servizio di un regista poco noto...
Perché non mi manca però quella freschezza di voler sperimentare qualsiasi cosa. Nel caso di opere prime o film come Il venditore di medicine si tratta di progetti così misteriosi che mi coinvolgono. Il tema di quel film non può di certo coinvolgere tutti e il personaggio che interpreto è fastidioso, difficile e antipatico. Mi piaceva molto.


Uno scatto da Il venditore di medicine

Tornando dunque a una fascia di pubblico giovane, mi piacerebbe sapere come i suoi figli si rapportano al suo lavoro. Guardano i suoi film?
Raramente ahimè. Sono riuscita a fare vedere La grande bellezza a mia figlia Nina di quindici anni. È successo a casa nostra, dato che al cinema non c'era andata. L'altra mia figlia di diciannove anni invece lo ha visto in sala.

Dopo aver abbandonato la commedia per una moltitudine di ruoli tanto drammatici quanto difficili, cosa fa per stare leggera sul set tra un ciak e l'altro o quando si prepara per i suddetti ruoli. In altre parole quanto è importante stare leggeri su un set drammatico?
È una cosa che ho imparato negli anni: non portarsi mai a casa i personaggi. Non è sempre stato così: un ruolo come quello di Emma in Un giorno perfetto ti rimaneva incollato addosso. Ho imparato a teatro a vivere il personaggio solo al momento del sipario grazie al lavoro svolto con Valerio Binasco. Detto questo ci sono personaggi che ti fanno bene, che sono distanti da te e hanno qualità che tu non hai. Se le assorbi ben venga.


Con Toni Servillo ne La grande bellezza

C'è una cosa che invece detesta del suo lavoro?
Sì, detesto essere semplicemente Isabella Ferrari sul set. È la cosa che mi viene peggio e alcuni registi me lo hanno chiesto. La verità è che più c'è trasformazione meglio riesco a recitare.

Si intravede una certa insicurezza nel suo processo creativo quando le cose non vanno come devono andare. C'è dunque un rituale che pratica prima di andare in scena per rilassarsi?
Ho bisogno di fare yoga, in modo da allungare il più possibile il respiro e sbloccare questo maledetto diaframma. Questa è l'unica cosa che faccio oggi. Quando ero più giovane succedeva di non dormire mai prima di andare sui set. Ho passato tante notti in bianco e sofferto molto l'ansia del primo giorno al lavoro. Oggi va meglio, ma il primo giorno resta sempre difficile da affrontare. Un'ansia da prestazione che mi ha colpito soprattutto sui set di Appuntamento a Liverpool e Un giorno perfetto.  


La Ferrari in uno scatto di Oskar Cecere

Chiudo spesso le interviste chiedendo qual era il poster che aveva in camera da ragazzina...
Non ne avevo nemmeno uno. La mia adolescenza è stata un po' particolare: non c'erano miti.

Il venditore di medicine è distribuito da Istituto Luce Cinecittà.

Per saperne di più

Guardate il trailer
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