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Il ragazzo più felice del mondo, la nostra intervista a Gipi tra cinema e fumetto

Il regista e fumettista ci racconta in esclusiva la sua esperienza con il cinema e con i corti di Propaganda Live

Gian Alfonso Pacinotti

09.11.2018 - Autore: Marco Triolo
Quando incontriamo Gipi a Lucca, ha appena concluso una sessione di autografi allo stand Coconino Press, dove ha presentato il suo nuovo fumetto, “Boschi mai visti”. Gipi ha la testa altrove, sta pensando al nuovo corto che andrà in onda nella puntata di Propaganda Live su La7 e al fatto che lo dovrà montare al volo nella sua stanza d'albergo. “Non uso la parola indignazione, perché non mi piace. Diciamo che tutti i nostri corti vengono da una base di rabbia. Ci piace fare ridere, pieghiamo le inquietudini sotto forma comica. Se devo vivere in una nazione in cui il governo mi fa incazzare 24 ore su 24, l'idea di avere un momento in cui me lo scordo e mi diverto mi è utile”.
 
Gian Alfonso Pacinotti è uno dei più grandi autori di fumetti italiani. Ha scritto e disegnato graphic novel come “La mia vita disegnata male”, “Unastoria” e “La terra dei figli”. Ha diretto L'ultimo terrestre, il mediometraggio documentario Smettere di fumare fumando e, ora, il suo secondo film vero e proprio, Il ragazzo più felice del mondo, un mockumentary che parte da un fatto realmente accaduto: per vent'anni, un signore si è spacciato per adolescente e ha scritto lettere a tutti i più famosi disegnatori italiani chiedendo un disegno originale in regalo. 
 
Eppure, quando ci sediamo con lui in un bar di Lucca per una chiacchierata, Gipi ci giura di temere sempre la buona vecchia “sindrome dell'impostore”: “La trovo una cosa molto sgradevole da vivere e molto positiva per il lavoro, perché ti spinge sempre. Non c'è niente di peggio di essere convinto di quello che fai”.

 
I corti che fai per Propaganda Live sono girati in tempi record e con pochi mezzi. Hai affrontato così anche Il ragazzo più felice del mondo?
No, fare un film è diverso. I corti sono una reazione quasi istantanea. A volte iniziamo a girare il giovedì mattina alle sette, finiamo di montare alle tre o quattro di mattina e il venerdì si va in onda. Il film ha avuto una fase di preparazione, di scrittura, anche se poi è cambiato completamente in corsa.
 
In che senso è cambiato in corsa?
Nel film tante volte dico che la mia idea era portare tutti i fumettisti a casa di quella persona, ed era la verità. Quando parlavo di questo progetto a [il produttore] Domenico Procacci, dicevo di voler fare un documentario buffo dove alla fine avrei portato tutti i fumettisti a casa di questa persona. Poi però ho fatto esaminare le lettere a una grafologa e il responso di questa perizia mi ha fatto cambiare tutto. Quando ho capito che avrei fatto del male a questa persona mi sono trovato davanti a un bivio: tenere la linea stile Le Iene, oppure per una volta nella vita scegliere essere una buona persona. E ho scelto di essere una buona persona.
 
Rispetto al fatto reale, cosa hai cambiato?
Quello che vedi nel film è tutto vero. A parte le cose più assurde, tipo io che propongo a Procacci di fare La vita di Adelo o la scena con gli uomini primitivi, tutto è successo realmente un po' di tempo prima della messa in scena. Io e Gero [Arnone, socio di Gipi a Propaganda Live e nel film] che scegliamo la grafologa... è andata esattamente così. Cercavamo un grafologo e a un certo punto su Google è venuta fuori la foto di questa ragazza milanese bellissima, e noi come due cretini abbiamo scelto immediatamente lei. La chiamiamo al telefono e lei ci dice subito: “Mi avete scelto perché sono bella?”. Ho preso un'attrice e ho messo in scena questa cosa.
 
Fumetto e cinema hanno molti punti in comune, sono entrambi media che si basano sulla narrazione per immagini. Ma cos'è che hai trovato invece di estremamente diverso tra i due?
La differenza più forte, per me, è la presenza e l'importanza dei soldi. Un fumettista non è mai legato a nient'altro che alla sua volontà e al tempo che decide di spendere. Nel cinema, un'idea, per quanto possa essere brillante, ha bisogno di soldi per essere realizzata. Soprattutto, i soldi nel cinema sono il tempo. È quello che veramente paghi, perché se invece di avere cinque settimane ne hai dieci, aggiusti, migliori, rifai. Però mi piace, perché è una sfida continua. Mi piace risolvere i problemi, mi stimola.

 
I filmati Super 8 che si vedono nel film sono veramente tuoi?
Sì, quello sono proprio io, anche se purtroppo non mi si riconosce. Ricordo che in post-produzione mi hanno detto: “Questo è il miglior Super 8 finto che abbia mai visto”. “Beh, forse perché è vero!”.
 
Quindi la voglia di fare cinema ce l'hai da tanto tempo...
Fin da piccolino. Ma per girare i miei filmini Super 8 mi servivano delle cose anche allora. Serviva che mio padre, che aveva un negozio di macchine fotografiche e cineprese, mi portasse a casa una cinepresa. Me ne portava una, me la lasciava per due o tre giorni e poi la rivendeva come nuova. Mi portava tre rullini da tre minuti e io a dieci anni montavo a mano. Impazzivo quando avevo quel giocattolo. Facevo i filmini a passo uno con i G.I. Joe, con i Big Jim, con le macchinine, mettevo in scena i miei amici, facevo candid camera per la strada con la cinepresa nascosta. Adoravo quel gioco, ma era una cosa che arrivava come benedizione ogni tanto. Il foglio e la penna erano sempre lì.
 
Ora con il digitale c'è molta più libertà, però. I corti che fai per Propaganda Live forse dieci anni fa non avresti potuto farli così rapidamente...
Io ho iniziato a fare corti nel 2000, ma certo, con i computer moderni si vola. L'unica vera rogna ancora oggi è l'audio. Infatti nei corti che faccio con Gero doppiamo tanto. Mi piace tantissimo doppiare, levare tutti i suoni e ricostruirli dopo.
 
Una volta si faceva così in Italia...
Eh lo so. Quando ero in post-produzione, quello che mi ha fatto gli effetti sonori, Martinelli di Roma, mi ha fatto vedere tutti nastri originali che ha nell'archivio di suo padre, che lavorava per Sergio Leone, Fellini. Una roba da piangere. Tutti i nastri erano etichettati: “Pisciata nel west”. E c'erano le foto di questo signore che, in ogni istante della vita, aveva sempre il registratore a tracolla col microfono. Bellissimo.

 
Hai parlato di una sensazione di inadeguatezza che a volte provi. L'idea di confrontarsi con chi ti critica, di leggere una stroncatura del tuo lavoro, può essere terrificante. Provi mai la sensazione, comune a tanti artisti, di essere “beccato”? La paura che scoprano che finora sei riuscito a fregare tutti?
Si chiama “sindrome dell'impostore”, la provo su tutto, sempre. La trovo una cosa molto sgradevole da vivere e molto positiva per il lavoro, perché ti spinge sempre. Non c'è niente di peggio di essere convinto di quello che fai. Mia moglie mi sgrida spesso e mi dice “Non sei mai contento”. Prendo un premio prestigioso e un minuto dopo me lo sono scordato e sono lì a pensare che non valgo niente. Ma penso che questi ragionamenti siano completamente superflui. L'unica cosa che conta è quello che fai. Come lo vivi tu, se ci stai bene o se ci stai male, non conta. Anche perché i lavori che fai non sono per te, sono per gli altri. Agli altri non interessa se ci soffri. L'importante è lavorare con coscienza e con passione. E secondo me la sindrome dell'impostore aiuta a lavorare con passione.
 
Non tutti gli autori, in qualsiasi campo, dicono di lavorare per gli altri. Tante volte senti dire: “Io i film li faccio per me”...
Li invidio molto. Io li faccio perché mi diverto, principalmente. Ma mi interessa anche sapere che effetto facciano sugli altri. Non farei mai una roba che richiedesse uno sforzo di comprensione da parte dello spettatore o del lettore. Nei fumetti, specialmente, credo di aver messo sulle pagine concetti anche piuttosto sofisticati, dandogli però il vestito più semplice possibile. Non voglio chiedere a chi legge di dover fare fatica per entrare nel mio mondo. Il mestiere del raccontastorie è un mestiere privilegiato. Secondo me ti puoi accontentare, non hai bisogno di chiedere altro alle persone.
 
Nel tuo film precedente c'erano gli extraterrestri, questo è un mockumentary. Il filo conduttore del tuo lavoro sembra la ricerca della verità in ciò che è finto...
Sì, me ne rendo conto. Non è un pensiero che faccio razionalmente a monte, ma mi entusiasma andare in quella direzione. La realtà di per sé non mi interessa. Non credo di essere adatto a raccontarla, altri autori e registi lo sanno fare benissimo. Sto più a mio agio quando vado a toccare il surreale e l'assurdo. È più funzionale a raccontare le cose che voglio raccontare.

 
E adesso, dopo la “fantascienza” e il mockumentary, cosa possiamo aspettarci da te?
Non ne ho la più pallida idea. Adesso sto scrivendo un soggetto su una famiglia di dei greci che va a vivere nelle case popolari di Pisa, in mezzo ai delinquenti. Una storia sul destino: questi delinquenti sono degli sfigati totali a cui è sempre andato tutto male proprio perché gli dei giocavano con loro. Una cosa sul libero arbitrio, in sostanza. Molto buffa, fa ridere (a me almeno), ma non credo la farò mai. Ne ho una di fantascienza molto bella (me lo hanno detto, non è che me lo dica da solo), ma non credo riuscirò mai a farla. Mi sento scemo a fare cinema adesso, perché non mi pare che economicamente se la passi troppo bene.
 
Però oggi ci sono molti altri veicoli per fare cinema...
Io vorrei andare su Netflix, alla grandissima. Ma mi sa che non mi vogliono...