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11 metri, storia di un calciatore

La vita di Agostino Di Bartolomei raccontata in un intenso documentario. Abbiamo incontrato a Roma il regista Francesco Del Grosso

11 metri - Agostino Di Bartolomei

21.11.2011 - Autore: Marco Triolo
Agostino Di Bartolomei è una leggenda, per i tifosi della Roma. La sua morte, nel 1994, ha lasciato tutti sgomenti, e per diciassette anni nessuno ha indagato sulle ragioni di un tale gesto. Finalmente ha tentato l'impresa Francesco Del Grosso, autore del documentario “11 metri”, in uscita il 21 novembre in allegato alla Gazzetta dello Sport. Il suo film è il ritratto di un uomo, prima che di un calciatore. Ne abbiamo parlato con lui al Festival di Roma, dove il film è stato presentato nella sezione L'Altro Cinema - Extra.

Com'è nato il progetto?
11 metri” nasce in seguito a un incontro occasionale tra la moglie di Agostino, Marisa De Santis, e il produttore Daniele Esposito della Vega's Project, durante riprese di “Benvenuti al sud”, che è stato girato a Castellabate. Vicino c'è San Marco di Castellabate, dove Agostino ha trascorso gli ultimi anni e dove ha deciso di togliersi la vita il 30 maggio 1994. Daniele aveva visto “Negli occhi”, il mio documentario precedente su Vittorio Mezzogiorno, e aveva capito che sarei riuscito a fare un ritratto intimo e non l'apologia di un calciatore. Inizialmente non avevo accettato il lavoro perché la figura di Di Bartolomei era troppo coperta dal mito, ma poi mi sono reso conto che c'era la possibilità di raccontare quello che il mondo del calcio non aveva mostrato. Quindi ho smitizzato il personaggio e l'ho riportato in mezzo alla gente.

11 metri, foto di Francesco Talarico

C'è stato qualche genere di supporto da parte della Roma?
La Roma è intervenuta solo a film finito per dare il suo patrocinio. La disponibilità non era arrivata subito, anche perché il film è stato realizzato durante il passaggio di proprietà dai Sensi alla direzione americana, e non potevano darci attenzione. Poi alla direzione è subentrato Walter Sabatini, grande amico di Agostino che ha deciso di dare il patrocinio. La Roma non ne esce benissimo dal mio film, e questo dimostra anche l'intelligenza da parte loro di capire che ci sono state mancanze nei confronti di Agostino. “11 metri” non vuole essere un risarcimento, ma un atto dovuto nei confronti di una persona che aveva anche le sue colpe. Agostino ha raggiunto le massime vette possibili nella carriera e poi quando ha appeso gli scarpini al chiodo è stato dimenticato da quel mondo che aveva contribuito a costruire e innalzare.

Un problema che tocca molti anche al di fuori del calcio...
Certo, è per questo che ho trattato Di Bartolomei come fosse una persona qualsiasi con un lavoro qualsiasi. “11 metri” è il ritratto di una persona che faceva anche il calciatore. E poi il film è con Agostino, non su Agostino. Il motore del film sono le interviste ai figli di Di Bartolomei, Luca e Gianmarco, e alla moglie Marisa, nonché ad amici, parenti ed ex-compagni di squadra, ma ci sono anche le interviste ad Agostino, una delle quali registrata due mesi prima che si togliesse la vita. Questo lo rende protagonista del film a tutti gli effetti.

                 

Hai detto che Di Bartolomei aveva le sue colpe. Cosa intendevi precisamente?
La sua colpa principale è stata di non aver aiutato se stesso, di aver accumulato dentro la depressione senza mai esternarla fino all'ultimo. Il calcio ha certamente le sue colpe pesanti, ma Agostino non sapeva vendersi. Pensate a Totti, che ancora deve smettere di giocare e ha già un contratto da dirigente per i prossimi cinque anni. Agostino, con tutte le sue conoscenze in politica e in Vaticano e la sua grande cultura, non ha saputo organizzarsi ed è rimasto isolato. Nello spogliatoio era l'asse portante, il primo ad aiutare chi ne aveva bisogno. Fuori non ha saputo aiutare neanche se stesso, e se non sai chiedere aiuto o venderti bene, il mondo del calcio ti mastica e ti sputa. La sua è una parabola esistenziale prima che calcistica.

Credi che il documentario sia meglio del cinema di finzione per raccontare un biopic come questo?
Io sono un documentarista, ma penso di fare cinema, e chi ha visto il film si è reso conto che ha un taglio cinematografico. Per me il documentario è cinema, è un genere tanto quanto l'action, e poi dentro il film ci sono anche ricostruzioni di fiction. Ormai c'è ibridazione tra i formati, è impossibile trovare, ad esempio, un film d'azione puro, senza che ci siano elementi thriller. “11 metri” è anche un thriller, un dramma, una commedia.

Del Grosso gira 11 metri, foto di Francesco Talarico

Sei un tifoso di calcio?
Certo, sono tifoso accanito della Roma, e non nascondo che quando ho finito il film volevo cambiare squadra. Ma poi hanno prevalso l'amore e la passione che mi ha trasmesso mio padre. Il film è anche un riavvicinamento a mio padre, perché parla anche di Agostino come padre e del rapporto con i suoi figli. Io ho perso mio padre quando avevo quattro anni, l'unico ricordo che ho di lui è una piccola maglia della Roma che mi ha regalato e all'epoca il capitano era proprio Di Bartolomei. La cosa più bella me l'ha detta il figlio di Agostino: “Tu a ventinove anni hai capito mio padre molto più dei suoi compagni di squadra”.