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La sorgente del fiume

Dal vestival di Berlino arriva il nuovo capolavoro di Theo Angelopoulos. Un film sull'esilio, il viaggio, la separazione e l'orrore profondo che provoca della guerra.

La sorgente del fiume

12.04.2007 - Autore: Giulia Villoresi
Regia: Théo Angelopoulos Con: Alexandra Aidini, Nikos Poursanidis, Giorgos Armenis e Vasilis Kolovos   Nel 1921 l\'Armata Rossa entra trionfalmente a Odessa. Comincia così l\'esodo di tutti gli stranieri, compresa la comunità dei greci che durante la Rivoluzione di Ottobre si era schierata con i russi. I profughi tornano in Grecia e si insediano sull\'estuario di un fiume, tra di loro si trovano Alexis (Poursanidis) e Heleni (Aidini), due giovani che scoprono d\'amarsi. Ma il padre di lui, rimasto vedovo, vorrebbe sposare la ragazza. I due ragazzi fuggono insieme e si rifugiano a Salonicco dove Alexis per fare qualche soldo suona la fisarmonica nelle osterie. Il suo talento fa \"ballare anche gli alberi\" ma non basta per mantenere lei e i due gemelli che sono nati. La miseria travolge ogni cosa. Il film segue il travagliato percorso degli amanti, inseguiti dal padre e insidiati dalla guerra. Attraversano gli sconvolgimenti degli anni \'30, poi la seconda guerra mondiale e l\'invasione delle forze fasciste. Alexis decide di partire per l\'America, il paese dove ogni speranza è concessa. Ma la separazione non sarà breve come si era sperato e lo scoppio della guerra civile che si protrae fino al \'49 allontanerà le loro vite, e le vite dei due figli che si troveranno a combattere l\'uno contro l\'altro. Il film si muove attraverso l\'acqua, il nero e il bianco, come elementi connaturati più degli altri alla terra. L\'acqua sommerge gli uomini e le cose, annega il bello e il brutto creando nuove zone di colore e di esistenza. Il nero e il bianco le si spiegano innanzi, sotto forma di lenzuoli o cupi cieli d\'inverno. Le atmosfere sono sospese in questo assolutismo cromatico dando modo al film di creare una nuova realtà. Questa è la prima rivelazione di Angelopoulos: l\'impatto straziante tra il reale e il surreale. Il regista ha creato qualcosa in cui l\'orrore vivo e il sogno non hanno bisogno di pretesti per coesistere anzi si incamminano mano nella mano, nella stessa direzione. L\'esilio, la separazione, il viaggio, la morte trovano in questo film un\'altra strada, che non è quella del dolore vivo, ma di quello morto, fiaccato dalla fine delle ideologie, da un cielo sempre cupo, da un destino che si accanisce sugli esseri umani. Implora Heleni chiusa in carcere per aver soccorso un partigiano: \"Guardia: non ho acqua, non ho sapone, non ho carta per scrivere ai miei figli\". Ecco la poetica del dolore di Angelopoulos, il moto esausto dell\'uomo privato delle cose più elementari. La lentezza maniacale, cupa, profondissima delle riprese è raccontata da un piano sequenza magistrale, quello che il regista ha imparato da Ejzenstejn, da Hitchcock e da Jean Rouch e che, dice, \"è lo stesso di Omero che descrive le armi di Achille e di Molly nel suo lungo monologo senza punteggiatura nell\'Ulisse\". Il piano sequenza accentua la drammaturgia del cinema di Angelopoulos, come anche il calco estremo dei suoi attori, quasi tutti svezzati dal teatro. Le riprese senza stacchi rendono un\'armonia continua e indipendente dagli spettatori e \"creano un labirinto temporale che sa mettere in relazione i vivi con i morti\". Accade ogni tanto che l\'uomo crei qualcosa di magico. Questa magia il più delle volte è irripetibile ed è la coincidenza di alcuni fattori inspiegabili di cui l\'autore stesso non è del tutto padrone e cosciente. È il caso di questo film che possiede un\'alchimia misteriosa, in grado di toccare le corde più nascoste e sensibili dell\'animo.