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Il ritorno di William Friedkin

Il regista americano ha presentato alla Croisette il durissimo "Bug" con Ashley Judd, opera di enorme spessore cinematografico, in assoluto la cosa migliore dai tempi di "Vivere e morire a Los Angeles"

Bug

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
Una delle sensazioni più belle per chi studia ed ama il cinema è quella di ritrovare un autore capace di esprimere la propria poetica anche a distanza di decenni, ed anche e nonostante i rovesci che ne hanno contraddistinto le alterne fortune. Apparentemente “limitato” ad alcune pellicole di cassetta – ma non sottovalutate il suo ultimo film distribuito in Italia, il tagliente “Hunted” (id., 2002) – William Friedkin ha invece proposto qui alla Croisette il durissimo “Bug”, opera di enorme spessore cinematografico, in assoluto la cosa migliore dai tempi di “Vivere e morire a Los Angeles” (To Live and Die in L.A., 1985). 

Il cinema di Friedkin ha sempre avuto un qualcosa di istintivo, di viscerale, che troppo spesso ne ha lasciato fraintendere anche il grande lavoro di composizione visiva: in questa sua ultima fatica l’autore riesce finalmente ad esprimere con pienezza quelli che sono stati gli stilemi portanti della sua estetica più personale, quella che tanto per intenderci era sfociata negli anni ’70 in capolavori come “Il braccio violento della legge” (The French Connection, 1971) e soprattutto “L’Esorcista” (The Exorcist, 1973). In un certo senso anche “Bug” è un horror, in quanto si confronta con l’orrore e la deviazione che può insinuarsi in menti umane abbandonate a se stesse da una condizione di vita disagiata: quasi interamente ambientato in una stanza d’albergo in cui si consuma il destino di due personaggi “borderline”, reietti ed insieme vittime del loro passato, “Bug” mette in scena con lucidissimo iperrealismo la discesa negli inferi della pazzia delle due figure principali, tra cui spicca una sontuosa prova d’attrice della semi-scomparsa Ashley Judd.

Friedkin torna dunque a fare il cinema che preferisce e che sa far meglio: un cinema fatto di interni soffocanti, illuminati con tagli di luce che ne fanno esplodere il senso claustrofobico; soprattutto nella seconda parte “Bug” si trasforma in un vero e proprio “tour de force” sia emozionale che in particolare visivo, trasformandosi in una pellicola acida e pulsante  causa dell’utilizzo pressante del neon (una delle matrici estetiche preferite del cineasta). Doloroso e quasi insostenibile, questo lungometraggio ci restituisce tutto l’impeto propulsivo e strabordante del discorso poetico del suo creatore: la messa in scena è violenta, fatta di grana grossa, ma intrappola lo spettatore in un senso di immediatezza e di realismo “forte” che non gli permette di prendere le distanza da quanto sta vedendo sul grande schermo.

Lungometraggio livido e per nulla conciliatorio, “Bug scandisce alla grande il ritorno di uno dei più grandi cineasti della storia del cinema americano moderno. Non vederlo distribuito in Italia sarebbe un madornale errore.
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