NOTIZIE

Il genio di Gus Van Sant

La storia di Gus Van Sant è quella di un regista scomodo, entrato nella storia del cinema a colpi di stile che sfuggono classificazioni, di un artista che non viene a patti con i riconoscimenti di critica e di pubblico.

Gus van Sant

12.04.2007 - Autore: Michela Saputi
La consacrazione alla 56° edizione del Festival di Cannes (Palma d'oro e miglior regia) con "Elephant" (2003), potrebbe ora mettere a tacere l'ormai sodato dibattito tra osannatori e detrattori che, a disagio con le sue creazioni, preferiscono liquidarlo come regista "sopravvalutato".   L'esordio di Van Sant avviene nel circuito del cinema indipendente. Se già con il primo lungometraggio "Mala noche" (1985) è premiato dal Los Angeles Film Critic Award del 1987 come miglior film sperimentale, è però con "Drugstore cowboy" (1989) e "Belli e dannati" (1991) che raggiunge il successo internazionale, inaugurando una svolta nell'intera produzione cinematografica americana. Di questi film cura, oltre che la regia, anche la sceneggiatura ed il montaggio, confezionando storie al limite, dove temi quali l'emarginazione, la droga, l'omosessualità inducono in "viaggi dannati" eccentrici protagonisti, in cerca di una riconciliazione che non arriva mai. Tutta la potenza delle zone di confine, nascoste dietro le apparenze della lucente società americana, trova espressione attraverso una forte dose di ironia, che si cristallizza in immagini spietate, ma di una chiarezza semplice e straniante, che rende inefficace i tradizionali apparati critici. Emblema delle difficoltà cui va incontro un regista esponente della cultura gay ed amante dei temi forti, è il film "Cowgirl"(1993): stroncato a Venezia, viene poi rimontato daccapo, ma non raggiunge nelle sale il successo sperato. Troppa originalità, è l'unica spiegazione che in molti riescono a darsi. E' molto forte l'eredità della controcultura americana. In questi anni Van Sant realizza anche cortometraggi premiati dai festival internazionali, come quello in cui dirige Allen Ginsberg mentre legge la sua poesia "Ballad of the Skeletons", ed i diversi progetti con William S. Burroughs, un altro profeta rivoluzionario della beat generation, che appare come comparsa anche in Drugstore cowboy. Il visionario David Cronenberg appare invece in "Da morire" (1995), graffiante satira che consacra Nicole Kidman (Golden globe nel 1996) e segna l'ingresso di Van Sant nel mondo hollywoodiano. Seguono "Will Hunting" (1997), vincitore di due premi oscar, "Psycho" (1998), e "Scoprendo Forrester" (2000). Van Sant non scrive più le sceneggiature, ma si aggrega ai progetti di grosse produzioni, arrivano i riconoscimenti, ma la critica lamenta una stanca ripetizione di temi. Certo lo stile è meno realistico e crudo, ma continua a scavare nelle incrinature del sogno americano, attraverso una raffinata visualità, una chiarezza iconica alla Warhol, sarcastica e sottile. Così come suona una sfida al conservatorismo del cinema americano, con i suoi miti intoccabili, il remake di Psycho, primo tentativo di rifare un film sequenza per sequenza, in cui le uniche variazioni, estremamente rarefatte, scrivono un sottotesto legato all'omosessualità. Una vera e propria operazione artistica, tanto più riuscita quanto più "fa arrabbiare la gente", cosa che Van Sant ritiene essenziale. Ancor prima di Elephant, il distacco dal controllo di Hollywood avviene con "Gerry" (2002), storia di un viaggio attraverso spazi sterminati, in una dimensione senza tempo, con un linguaggio visivo di estrema purezza che si ispira ai modelli dei film di Bela Tarr e Abbas Kiarostami. Elephant, presto nelle sale italiane, è dunque l'ultimo capolavoro di un autore che ha scelto di rimanere fedele alle sue idee.