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Ancora delusioni a Berlino

Anche la giornata di mercoledì ha purtroppo regalato pellicole più che deludenti, confermando che la 58° edizione della Berlinale non resterà di certo nella storia di questa rassegna.

Restless

15.02.2008 - Autore: Adriano Ercolani
In un festival il cui filo conduttore principale sembra essere l’analisi delle contraddizioni e delle forze centrifughe interne al nucleo familiare, anche la giornata di mercoledì ha purtroppo regalato pellicole più che deludenti, confermando che la 58° edizione della Berlinale non resterà di certo nella storia di questa rassegna, sia per la mancanza di glamour e di star, sia soprattutto per la scarsa qualità delle opere presentate in competizione e nelle sezioni collaterali.

Partiamo dall’israeliano “Restless”, scritto e diretto da quell’Amos Kollek che con “Fast Food Fast Woman” (id., 2000) aveva sorpreso il festival di Cannes. La vicenda narra in parallelo le traversie di un padre e di un figlio, il primo a New York ed il secondo in Israele, divisi dall’abbandono del genitore ma uniti dal rapporto conflittuale nei confronti della storia e dei sentimenti nei confronti del loro paese. La confezione del film risulta molto accurata, ma fin dalle prime scene ci si rende immediatamente conto che le figure messe in scena traboccano di retorica, si presentano come superficiali funzioni per rappresentare ognuna una metafora, un diverso stato di una crisi ideologica, ma a livello emotivo non riescono davvero ad incidere sullo spettatore; tutte le psicologie rimangono approssimative, e conseguentemente anche l’incedere della storia pian piano si affloscia in un susseguirsi di scene del tutto prevedibili. La catarsi finale è poi assolutamente conciliatoria, dove invece avrebbe forse dovuto problematizzare lo scontro di cultura, vita vissuta ed idee che muove i due protagonisti.

Se “Restless” di certo non ha brillato, decisamente peggio è andata con “Il y a longtemps que je t'aime” del francese Philippe Claudel, storia di una copia di sorelle che si riunisce dopo quindi anni, quando la maggiore esce finalmente di prigione per aver scontato la sua condanna per omicidio. Questo lungometraggio non si risparmia nessuno dei luoghi comuni possibili per una vicenda di questo tipo, ed in più viene caricato dalla ormai proverbiale e vagamente inutile verbosità del cinema francese.
Le due attrici protagoniste poi non fanno nulla per migliorare una storia tanto scontata: se la giovane Elsa Zylberstein prova a compensare con la sua bellezza evidenti lacune recitative, la più esperta Kristin Scott-Thomas sfoggia ancora una volta un’interpretazione accuratamente avvilente, risultando dopo pochissime scene impregnata di un “istrionismo al contrario” a tratti irritante. E come se non bastasse. Claudel sceglie di incorniciare il tutto in un digitale dalla resa visiva molto poco convincente.

A conti fatti, e soprattutto a pochi giorni dalla sua conclusione, il festival del cinema di Berlino sta mostrando preoccupanti segni di cedimento, di decadenza dal punto di vista squisitamente qualitativo – tutt’altra cosa l’organizzazione, sempre puntualissima.
Il distacco da Cannes e Venezia, già presente negli ultimi anni, sembra addirittura accentuarsi, e ciò non può che essere un fattore negativo per la salute del cinema europeo.