

Damsels in Distress - Ragazze allo sbando

Lily, matricola della Seven Oaks University, entra a far parte di un gruppo di studentesse individualiste e nostalgiche. Heather, Violet e Rose prestano volontariato nel Centro di Prevenzione Suicidi del campus convinte che della musica genuina, vestiti alla moda e una buona toilette possano contribuire a sedare gli impulsi autodistruttivi causati dal fallimento di una relazione sentimentale. Nonostante il loro parlare forbito e l'abbondante uso di costosi profumi, anche le tre ragazze verranno colpite dalla freccia di Cupido e saranno costrette a venire a patti coi propri sentimenti.

I film di Whit Stillman non hanno mai né capo né coda, quindi aspettarsi di capire dove anche questo “Damsels in Distress”
voglia andare a parare è pura illusione. Una ragazza si unisce a un
gruppetto già collaudato di tre sue simili al college e questo, se
fossimo in un liceo, sembrerebbe l'incipit di prodotti per adolescenti
assolutamente geniali come “Mean Girls” o “Schegge di follia” (e non a caso uno dei personaggi si chiama Heather). Ma “Damsels in Distress”
non ha né la geniale arguzia della sceneggiatura di Tina Fey, né
tantomeno il coraggio al vetriolo di “Heathers”. E va aggiunto che non
può contare nemmeno nel suo cast di attrici dall'inestimabile talento in
erba come era più che palese con gli altri due film citati.
Un continuo e saccente bla bla che dovrebbe essere divertente, ma che invece snocciola il più verboso e fastidioso umorismo radical chic viene somministrato allo spettatore da una Greta Gerwig che a un'analisi superficiale potrebbe anche apparire bravina, ma che
poi è l'ennesima nuova attrice che recita solo con la faccia – e in
questo ruolo la fisicità le era molto richiesta. Analeigh Tipton invece è una consolazione: portata alla ribalta da “America's Next Top Model”,
è la dimostrazione che non solo in Italia i reality danno subitanea
fama e possibilità di lavorare nel cinema a persone senza talento. Molto
meglio allora la sconosciuta Carrie MacLemore, relegata in un ruolo di secondo piano molto simile a quello che fu di Amanda Seyfried sempre in “Mean Girls”. Ovviamente poi arriva Adam Brody e insegna come si interpreta a tutte quante.
Con costumi ripetitivi nemmeno fossero personaggi dei fumetti e un paio
di personaggi marginali molto azzeccati, il film fa un uso delle musiche
come il più banale degli otaku degli anni Novanta, ma non è solo questo
che lo relega in un'epoca risalente a due decenni fa: è terribilmente
statico, persino nelle forzate scene di tap dance, e il citazionismo è
stantio e appiccicato.
di Federica Aliano